di Valter Vecellio
L’autore islamista della strage di Manchester è il sintomo. E’ però la malattia che ci deve inquietare: il fatto che il terrorismo è strumento di lotta, perseguimento e tutela di interessi molto concreti e poco fanatici: di stati e di potentati che vanno al di là dei confini e delle frontiere. Alla fine, ricordiamoci che le vittime innocenti restano soprattutto musulmane
E’ frase fatta, e senza senso, quella che si pronuncia a ripetizione, dopo ogni attentato, dopo ogni strage: i terroristi non cambieranno la nostra vita, il nostro modo di relazionarci con il prossimo. Non è così, lo sappiamo tutti. Il terrorismo ha già cambiato, e snaturato, le nostre vite, il nostro modo di comportarci e (anche) di relazionarci con l’altro “diverso” da noi; e nelle “piccole” cose: prendete un qualunque aereo. “Prima” si arrivava al gate anche mezz’ora prima, ti imbarcavi, era tutto relativamente facile, “semplice”. Ora devi arrivare tre ore prima, poco ci manca che devi spogliarti, i bagagli attentamente radiografati, piccole dosi di sapone da barba come bagaglio appresso, non parliamo dei computer e dei tablet, fosse mai che hai la ventura d’esser nato in qualche paese strano, di passano documenti e te stesso ai raggi X… la vita cambia, è cambiata, eccome. Forse non ancora come racconta lo scrittore israeliano Amos Oz, che ha proibito ai due figli di prendere lo stesso autobus: perché se uno è vittima di un attentato, almeno si salva il secondo; ma insomma, che nessuno dica che il terrorismo non ha cambiato il nostro modo di vivere.
Frase anche con poco senso quella che accade spesso di sentire: “la domanda non è se ci sarà un attentato; ma quando”. Oggi la domanda da porci non è né se né quando. La domanda da porci è perché?”.
Se a Manchester la strage sia stata consumata da una rete “dormiente” di attentatori, o da un “lupo solitario” serve, bisogna accertarlo; sono informazioni preziose per gli investigatori e per i servizi di sicurezza.
Come sia, tuttavia, occorre essere consapevoli che dietro ogni kamikaze ci sono migliaia di giovani che l’industria della predicazione estremista cerca senza sosta di indottrinare e arruolare in ogni parte del mondo. Al di là e al di sopra dei singoli autori, c’è appunto questa “industria”, che indottrina e arruola. Questo è il problema; l’autore della strage è il sintomo. E’ però la malattia che ci deve inquietare, va compresa, inquadrata, analizzata: il fatto che il terrorismo sempre più è strumento di lotta, perseguimento e tutela di interessi molto concreti e molto poco fanatici: di stati e di potentati che vanno al di là dei confini e delle frontiere.
Von Clausewitz, nel suo celebre trattato Della guerra, ci ricorda che i conflitti non sono che “la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi”. Definizione che possiamo benissimo attualizzare: “Il terrorismo non è che la continuazione della politica (e il perseguimento di interessi) con altri mezzi”, e di seguito il resto.
Il massacro della Manchester Arena ha gettato il Regno Unito, l’Europa, l’Occidente sotto choc; ma occorre rendersi conto che drammi come questo sono realtà quotidiana per tanti popoli: in Siria, fonte Unicef, l’anno scorso sono stati uccisi almeno 652 bambini e altri 850 sono stati impiegati nei combattimenti. In Afghanistan, fonte ONU, ogni settimana 53 bambini vengono uccisi o feriti. In Irak, nel 2016, su oltre 16.300 vittime civili, più del 12 per cento erano bambini, fonte Irak Body Count. La strage degli innocenti su scala industriale si consuma nella quasi generale mancanza di reazione, in un clima di assuefazione sconcertante.
Ecco: oltre all’orribile strage degli innocenti consumata a Manchester, tante altre analoghe, se ne consumano, ignote e ignorate, ogni giorno: in Siria, in Afghanistan, in tanti altri disastrati paesi, sempre a opera dell’estremismo terrorista islamista. Non solo colpiscono gli “occidentali”, i “crociati, ma anche tra i musulmani stessi. Servirebbe a noi, per prendere consapevolezza della dimensione globale del fenomeno; servirebbe anche ai tanti musulmani che non sono preda dell’estremismo islamico, e ne sono anzi vittime: in Italia, in Occidente, e nei loro paesi d’origine: piangere i loro figli, i loro bambini massacrati dal terrorismo, li farebbe forse sentire meno soli nella loro tragedia; giustamente chiediamo a loro di dissociarsi e condannare i terroristi che in nome del loro dio uccidono e massacrano; la nostra richiesta sarebbe più efficace, credibile, fondata, se anche noi, ogni volta, quando sono i loro figli a morire, piangessimo i loro, come oggi piangiamo i nostri. Quasi mai accade, purtroppo. E’ ora di cambiare: ai massacri che si consumano in paesi lontani dobbiamo imparare a prestare la stessa attenzione che riserviamo a quelli che si consumano qui, “a casa nostra”.
LA VOCE DI NEW YORK